Feb 19

Josh Waitzkin


Questo è un post interlocutorio. L’obiettivo mio generale – ambiziosissimo, ma senza sogni grandi che cosa ci stiamo a fare in un campo da golf? – è quello di craccare il codice dell’imparare nel golf, ovvero di raggiungere veramente nel giro dei prossimi quattro-cinque anni il mio massimo potenziale golfistico, per il vero obiettivo ultimo: dimostrare a me stesso fin dove posso arrivare.

Fare questo è un affare molto complesso, che richiede delle competenze intellettive che vanno molto al di là, o quantomeno al di fuori, della mera tecnica golfistica. Nel senso che questo processo non prescinde, non può prescindere dall’affinare la tecnica, ma soprattutto il punto è quello che devo arrivare a migliorare la maniera di pensare. Pensare in maniera creativa, pensare a un livello superiore per ottenere dei risultati di un ordine di grandezza superiore.

Ovviamente questo è un progetto valido nel lungo termine, e comunque dai confini e dai risultati assolutamente incerti. Cionondimeno sono sicuro che valga la pena percorrerlo, perché da qualche parte laggiù c’è la fine dell’arcobaleno che aspetta di essere vista, sotto forma di cura e salvaguardia e tutela della rosa del Piccolo principe.

Una spinta notevole mi viene da questo libro, e più in generale dal pensiero di quest’uomo. Il libro mi ha portato ad alcune sue interviste che sto ascoltando e studiando (questa e questa tra le altre – senza dimenticare le chiacchierate tra lui e Tim Ferriss che me lo ha fatto scoprire).

Josh Waitzkin mette insieme tanti argomenti pesanti, e l’assimilazione di quei concetti richiede molto tempo e molto pensiero. Occorre respirarli, sognarli, farli propri. Non puoi avere fretta. Di tutti quei concetti al momento mi colpisce soprattutto quello di andare incontro al dolore (sia fisico che mentale), ovvero ritenere che gli errori sono benvenuti perché ti insegnano delle cose, ti insegnano ad andare oltre, ad andare solo un po’ più in là. E questo è un concetto olistico, per così dire, perché si applica in tanti campi: per esempio nella ginnastica, resistere gli ultimi cinque secondi quando i muscoli bruciano o aggiungere due ripetizioni fatte bene quando sei al limite ti spinge in maniera naturale un po’ più in là. È una sensazione splendida, che sto sperimentando più volte in questi giorni.

Sì, ma come si applica questo al golf? Be’, partiamo per esempio dalle parole di Anthony Kim:

Even when you don’t want to hit that last bucket or two of range balls, physically you can, and then maybe you find something in that last part of the session. After a while, those somethings add up.
[Anche quando non vuoi tirare l’ultimo secchio o paio di secchi di palle, fisicamente ti è possibile, e poi può essere che trovi qualcosa in questa ultima parte della sessione. Dopo un po’, tutte queste piccolezze si sommano.]

E, portando il ragionamento un po’ più in là, ho il sospetto che una parte almeno del tempo che passo in campo pratica sia poco efficace dal punto di vista dell’apprendimento: perché il punto dovrebbe essere quello di essere sempre o comunque spesso verso i limiti della conoscenza, ovvero con l’obiettivo di provare colpi e sperimentare situazioni in cui la sicurezza è minima, e grande il rischio di errore. E questo perché tirare colpi che sappiamo eseguire alla perfezione alimenta il nostro ego, ma non ci aiuterà dopo un errore in campo in una situazione in cui dovremo recuperare. Ne ho il sospetto e qualche indizio ma non le prove certe: ecco perché Josh Waitzkin ha molte cose da dirci (da dirmi, almeno), ecco perché in questo mio diario di bordo continuerò ad annotare pensieri e scoperte.


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