In tutti questi anni il mio “modello” di golfista è stato Tiger Woods: scontato, probabilmente, ma mi ha sempre affascinato la sua forza mentale, la sua capacità di credere in sé stesso e di pensare di potere comunque farcela. (Sto parlando del campo, ovviamente, quello che fa altrove non mi interessa.)
La stampa, dopo lo scandalo dello scorso inverno, l’ha dipinto come il cattivo della situazione: e questo fatto non mi è mai piaciuto, né ho mai capito veramente perché una persona tanto idolatrata viene da un giorno all’altro scagliata nella polvere senza pietà.
Leggo ora un’intervista di Hank Haney sull’ultimo Golf Digest che mi sembra, in una parola, brutta. Con la premessa che noi comuni mortali possiamo sapere ben poco del rapporto professionale tra Tiger e il suo maestro, leggo delle dichiarazioni che mi sembrano quantomeno mancare di stile.
Per esempio, alla domanda su che cosa gli avesse detto Tiger la prima volta che si sono parlati dopo che Haney gli aveva fatto sapere (tramite sms, tra l’altro) che recedeva dall’incarico, il maestro risponde:
He thanked me for all the hard work I did, and he told me how much he thought he had improved his game and his understanding of it.
E io davvero non me la vedo, questa scena. Più sotto dice:
I always tell the truth.
Chissà perché mi viene in mente quel giochino per la mente del tale che dice: “Io mento sempre”?
E alla domanda di quando ha parlato a Tiger per la prima volta dopo l’incidente, risponde:
I texted him but got no response. I think his phone was shut off almost immediately. I got a text message at the end of December some time. I got maybe another text after that, and then a phone call in February when he started playing again.
Io qui non capisco, ma il tutto mi suona quantomeno vagamente stonato. Adoro questa rivista, ma non è tutto oro quel che pubblica.