Non c’è un motivo particolare per cui parliamo oggi di David Duval. Diciamo che è un argomento che da tanto tempo mi frulla per la testa, credo sia una storia che contiene delle lezioni da imparare. (Ci deve essere tanto della metafora, nella vita di quest’uomo – in quella golfistica quantomeno.)
Il golfista che era stato numero 1 al mondo – ma questo era tanto tempo fa –, che aveva vinto il British Open – dieci anni fa –, colui che aveva segnato una carta da 59 colpi all’ultimo giro del Bob Hope Classic (aprile 1999) – terminando con un eagle per vincere di un colpo –; ecco, proprio quell’uomo ha poi smarrito la via, sia per problemi personali che fisici (ma in fondo cosa sappiamo noi, della vita di un golfista professionista?), ad un certo punto era finito nella parte bassa – molto bassa – della classifica dei primi mille golfisti al mondo.
Da numero 1 a numero 882, posso solo immaginare quanto una cosa del genere sia difficile da digerire.
Poi la zampata, improvvisa e magnifica: secondo a pari merito allo US Open del 2009, anche se a quella prestazione non sono seguite altre degne di nota nei mesi successivi. E così non ha preso la carta per il 2010, giocando però grazie agli sponsor.
Per il 2011 invece le cose sono cambiate: ora la carta ce l’ha (“Eh… mi sento di nuovo sbirro”, per dirla alla DeNiro in Prima di mezzanotte) Al momento è 51° nel PGA Tour, 56° nella FedEx Cup e al posto numero 185 nel mondo.
In questa intervista, pubblicata quasi cinque anni fa, Duval parla di sé e dice molte cose che sono attualissime ancora adesso. E anche a prescindere da lui. Dice per esempio, riferendosi a quando nel 1999 diventò numero uno al mondo,
All of a sudden, I was supposed to have all the answers. But I didn’t have any different answers than when I wasn’t No 1.
Tornerà, non tornerà? Chi può dirlo. Ma è una bella storia da raccontare.