Lug 25

Arnold Palmer
Il post di oggi è una meditazione “filosofica” sul leggere di golf. Il motivo scatenante è questo libro, la principale biografia esistente su “The King”. Tecnicamente è un’autobiografia; in realtà è stata scritta da quel mago che è James Dodson ed è il frutto di tre anni di conversazioni e ricerche in casa Palmer sul finire degli anni Novanta.

(Dodson è anche l’autore della biografia autorizzata del mio “mito” – a proposito, è un po’ che non ne parlo ma è spesso nei miei pensieri.)

Dei golfisti passati alla storia, Palmer non è mai stato tra i miei favoriti; ma sono simpatie, non c’è un motivo vero. Questo libro mi ha aiutato ad approfondire l’aspetto che più mi piaceva e mi piace di lui, quel suo essere un vero signore, un raro gentleman, sul campo e, soprattutto, fuori.

(Ricordo di aver letto da qualche parte che Palmer un giorno stava per pattare quando un bambino si mise a parlare. La mamma lo zittì. Lui si rimise pazientemente sulla palla e il bambino, di nuovo, aprì la bocca. Alla terza volta la mamma era atterrita, pronta a ricevere una lavata di capo da Palmer e lui le disse: “Non si preoccupi, signora. Il mio putt non è così importante, dopotutto”.)

Ma al di là dei contenuti specifici del volume il punto per me è questo: leggere le biografie dei grandi campioni ti mette voglia di andare in campo a tirar palline allo sfinimento, di provare e riprovare e provare ancora tutti i colpi per diventare il golfista migliore che tu possa diventare. Anche senza arrivare alle magie di Hogan, conoscere le gesta di questi grandi uomini ti fa venire il desiderio di essere un golfista migliore.

E questo, per me, è il miglior regalo che Arnold Palmer mi possa fare.

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Apr 11

Maria Pia Gennaro
La notizia mi è arrivata all’improvviso, potente e devastante come una fucilata, tramite la pagina FB di Golf Today. Subito non capivo che cosa significavano quelle due date, 1955 e 2014, messe lì accanto alla sua foto. Poi mi sono reso conto.

Ebbene, io non posso dire di aver conosciuto Maria Pia Gennaro a fondo – l’ho incontrata in due occasioni all’Open –, ma ci siamo scritti tante volte e dunque nel tempo un poco di confidenza si era creata. Ora vorrei – soprattutto per il mio bisogno di dover razionalizzare eventi che di razionale hanno ben poco – dire qualche parola sul rapporto che mi ha legato (e mi lega) a lei.

La conobbi all’Open di tre anni fa, dopo uno scambio di mail. Lei mi diede fiducia e da lì iniziò la mia collaborazione con “Golf Today”. Di lei conservo le mail che, invariabilmente finivano con “un abbraccio”, a testimonianza di un rapporto cordiale e non solo formale. In un mondo di squali, una parola sincera di apprezzamento per un tuo collaboratore ha un valore inestimabile, perché racconta tanto della persona che sei e non solo di carriera, denaro, fama e così via.

La incontrai poi all’ultimo Open, e ricordo il suo sguardo pensieroso quando mi vide; ma fu una sorta di simpatico siparietto, perché parve non riconoscermi e quando le dissi chi ero rispose “Sì, lo so chi sei, ma stavo pensando a quel vaso laggiù” (i vasi dell’amico Pat che decoravano lo stand della rivista). Ne ridemmo.

(Poi a volte penso alle nostre miserie umane, io che domenica scorsa le ho mandato gli articoli per il prossimo numero chiedendole il PDF del precedente da mettere qui. Se c’è un fatto che questo episodio minimo deve insegnarmi è quello di lasciar perdere le piccolezze e guardare il quadro generale, gli obiettivi che ci siamo dati, le cose che davvero sono importanti nella vita.)

Insomma è stata una conoscenza non approfondita ma che mi rimarrà sempre dentro. Mi considero molto fortunato per averla avuta come direttore in questi anni; e sì, le ho scritto più volte che la stimavo moltissimo, però porto dentro di me il rammarico di non averle detto mai quanto era davvero brava. Ma, col dottor Seuss, dirò:

Don’t cry because it’s over. Smile because it happened.

E che il sonno, mia cara Maria Pia, ti sia leggero.

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Feb 07

the last putt
Quando si pensa allo US Open del 1950, la mente corre subito alla foto più famosa dell’intera storia del golf. Del resto il punto da dove partì quel ferro 1, là dove una targa ricorda

JUNE 11, 1950
U.S. OPEN
FOURTH ROUND
BEN HOGAN
ONE-IRON,

è un problema reale per quel campo, poiché virtualmente chiunque passi di lì vuole cercare di rivivere quell’emozione.

Ma c’è una questione che gli storici del golf hanno sottovalutato, ed è il fatto che quando quel ferro atterrò in green Hogan aveva ancora due putt da una distanza considerevole per forzare un play off. I giochi, insomma, erano tutt’altro che fatti (e la storia in questo insegna, perché nello US Open del 1956 Hogan mancò un putt da 1,2 metri sull’ultimo green, cosa che gli impedì di andare al play off; e – ma ora vado a memoria – mi pare che la stessa cosa gli sia successa in un altro caso in un major).

Soprattutto, bisogna considerare che dopo il primo putt gli rimase il colpo che tutti i golfisti sanno essere in assoluto il più difficile nel golf: il putt da 90 centimetri.

(Non è un caso che Dave Pelz in Golf without fear indichi questo come il colpo più difficile, proponendo poi delle soluzioni per un problema che nel golf è fondamentale.)

Anche Tiger ha riconosciuto la difficoltà di quel momento sul green: si vede qui, al minuto 4:09. E subito dopo si vede come la palla sia entrata in maniera quasi casuale dal bordo destro, ma avrebbe potuto benissimo uscire. Insomma quall’ultimo putt era tutt’altro che scontato, Mr Hogan avrebbe potuto mancarlo e la storia sarebbe stata differente.

(Glad he sank it.)

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Gen 24

Sanremo, buca 16
Be’, è difficile dire qualcosa di nuovo o particolarmente originale su questa gara, per me senza dubbio la più bella dell’anno.

Ma insomma una nuova stagione è alle porte, e sono felice di misurarmi nuovamente con un vero campo: dopo tre mesi di campo pratica, in cui ho imparato e digerito moltissimo, non vedo l’ora di avere un “responso”. Perché nel golf you are your numbers, si sa.

La settimana prossima racconterò come sarà andata. (Ma comunque vada, il solo fatto di esserci è fonte di gran felicità per me.)

Per ora parlo solo dell’attesa (la magia del luogo, la casa di Casera e così via), con una menzione ad un compleanno – il quinto – di questo blog, che il 22 gennaio 2009 prendeva l’abbrivio con un timido post dedicato, è appena il caso di ricordarlo, a questa gara.

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Dic 27

Five Lessons
L’ultimo post dell’anno è dedicato a questo blog, che contiene la traduzione in italiano delle Five Lessons di Ben Hogan.

(Tra parentesi mi rendo conto che, anche se quest’anno ho parlato spesso di Ben Hogan – e conto di farlo ovviamente, e sempre più, in futuro –, non ho mai scritto una vera e propria recensione di questo libro. Ma forse è perché tale recensione è di fatto inutile, dal momento che io renderei questa lettura obbligatoria per qualunque golfista seriamente intenzionato a migliorare.)

L’ho letto qua e là e non nel dettaglio, non so quindi giudicare in profondità; ma da quel che ho visto la traduzione mi sembra corretta e sostanzialmente completa, e dunque affidabile.

Un plauso quindi al golfista che se ne è fatto carico, Andrea Gandolfi.

E siamo poi sulla stessa lunghezza d’onda quando l’autore parla del “segreto” di Ben Hogan:

Fa sorridere pensare che in realtà, e ne sono praticamente certo, non vi è nessun segreto nello swing di Ben Hogan. Tutto ciò che vi è da sapere è scritto, nero su bianco, nelle pagine che avete appena letto. E la dedizione con cui il grande Hogan spiega ogni particolare dello swing non lascia dubbi. […]
Alla domanda che un giornalista gli fece per l’ennesima volta, su quale fosse il suo segreto, Ben Hogan rispose laconico, forse sconsolato: “The secret is in the dirt”, il segreto sta nella polvere. Tutti iniziarono a pensare all’attacco della palla, alla zolla. In realtà Ben Hogan intendeva dire che il segreto sta tutto nella polvere del campo pratica, nel sudore e nella fatica quotidiana.
Non un segreto dunque, ma come lui stesso dice più volte, una sequenza coordinata di azioni, eseguite correttamente fino a quando non diventano istintive. Second nature, per la precisione. Tutto qui.

Allargando il discorso, mi viene da pensare che questa potrebbe essere una strada per così dire dal basso utile a risolvere l’annoso problema delle traduzioni di golf in italiano. In breve: gli editori pagano poco perché possono pagare poco, dato che le vendite sono scarse; ma hanno di conseguenza poco in termini di traduzioni di libri: i lettori ottengono dunque poco e non sono invogliati a comprare. Il classico cane che si morde la coda. Ma blog come questo, che vengono di fatto a sostituire un libro – in questo caso, direi anzi il libro di golf par excellence –, possono essere una maniera di superare il problema. Il tutto in un’ottica di Web 2.0, di wiki eccetera.

Una maniera di scavalcare dal basso il problema. Occorre pensarci.

Restano, ovviamente, i problemi legati al diritto d’autore; ma credo che di questi tempi ogni strada che possa portare nuovi adepti al golf non sia da trascurare. (Nuovi adepti, ovvero non rubarsi i clienti tra circoli con pratiche al limite della correttezza, ma fare avvicinare al golf persone nuove.)

Insomma la traduzione in italiano delle Five Lessons apre delle porte possibili. E questa è una sorta di augurio che faccio al golf italiano per il 2014 e gli anni a venire: di trovare tanti adepti innamorati di questo sport magnifico, di questa attività così carica di significati e gioia e bellezza.

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Ago 30

James Dodson, Ben Hogan
Ho finito di rileggere questo libro, la biografia di Ben Hogan autorizzata dalla famiglia. L’avevo letto qualche mese fa, in vista di una recensione uscita su “Golf Today”, ma l’ho ripreso ora per cercare di approfondire la conoscenza di una vita straordinaria. Anche se, mi chiedo, quanto un libro può trasmettere di una vita intera, soprattutto di una così complessa e ricca di avvenimenti come quella di Hogan? E del resto lo stesso autore scrive:

The problem with writing in depth about Hogan the golf star is the very mistique that envelopes him like a mist from Mount Parnassus.

Quel che mi ha colpito soprattutto, al di là dei grandi successi e anche – ahimè – delle sconfitte cocenti (mi bruciano come fiamma viva, e posso solo immaginare quanto bruciassero a chi dovette viverle in prima persona), è stato – è – l’uomo Hogan, ovvero la sua vita anche al di fuori del golf. In particolare l’invecchiamento e la vecchiaia, i suoi anni amari. Vide infatti la Ben Hogan Company, sublimazione di quel figlio che – per suprema dedizione al suo sport – non ebbe mai, passare di mano in mano e lo stabilimento di Fort Worth chiudere senza scrupolo alcuno. Poi, mano a mano che l’età procedeva e la salute, molto rapidamente, peggiorava, la moglie, col nobile intento di proteggere il marito, gli tolse de facto prima il permesso di guidare, poi la possibilità di trascorrere qualche ora al suo amato circolo e infine anche di ricevere visite e telefonate dagli amici.

Ma insomma questa sua American life è un modello per qualunque golfista seriamente desideroso di andare un po’ più in là nella conoscenza del suo proprio swing, e dunque di se stesso. Va detto che un golfista che fu all’apice della carriera più di sessant’anni fa potrebbe apparire come un’immagine in bianco e nero (il che ha del vero, e non so più quale giornalista ha detto che Ben Hogan è il più recente dei grandi campioni di golf a meglio apparire in bianco e nero rispetto al colore), molto datata e, di fatto, inutile. Ma una volta che si inizia a scavare in quella miniera inesauribile che è la vita di Ben Hogan si capisce che si potrebbe imparare dalle sue gesta per una vita intera e oltre. E va appena notato che le Five Lessons sono il libro più venduto in tutta la storia del golf, e contengono istruzioni per il golfista medio di un’attualità che appare sconcertante, se consideriamo tutto il tempo che è passato dalla loro pubblicazione.

A seguire qualche passo che ho apprezzato in particolare.

Sul desiderio insaziabile di praticare:

Nobody has ever seen a kid who loved the range as much as Bennie Hogan did. His desire for hitting balls was insatiable, almost spooky. The kid could stay out there forever, beating balls from the dusty hardpan and hiking out to pick them up, walking back, and beating them from the dust again.

Sul fatto che, n’importe quoi, puoi farcela comunque:

I feel sorry for the kids these days […]. They don’t know what it’s like to learn that you can survive almost anything.

(Lo disse in una famosa intervista che si può vedere qui.)

Sulla sua ben nota glacialità sul campo c’era una storiella che l’amico e collega Jimmy Demaret raccontava ogniqualvolta ne avesse l’occasione:

– Old Ben was talking up a storm on the golf course today.
– Really? So what did he say?
– You’re away.

Ben Hogan, il mito.

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Ago 09

Ben Hogan
Chi segue anche solo distrattamente questo blog sa che c’è un golfista – Ben Hogan – che ha cambiato per sempre la mia visione del golf.

La sua testarda dedizione alla pratica, l’idea di entrare in campo sempre e solo per vincere, il golf come suprema via d’uscita dai tanti rovesci con cui ci flagella il destino (nel suo caso la morte del padre, per dirne una).

E poi la classe, lo stile, la conoscenza immensa dello swing. Eccetera (non servono tante parole; non occorrono nemmeno i verbi).

Ebbene, questo post è un “semplice” ricordo di un anniversario, la sua nascita: tredici agosto millenovecentododici. La storia è fatta anche di numeri: Happy birthday, Mr Hogan.

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Giu 14

BH
Questa è senza dubbio la foto più famosa di tutta la storia del golf.

È stata scatta da Hy Peskin il dieci giugno 1950 alla 18 del Merion, proprio là dove si sta giocando lo US Open ora, 63 anni dopo. Ritrae il famoso ferro 1 che Ben Hogan utilizzò come secondo colpo nel quarto giro, quando gli occorreva un par per andare al play off.

Ho raccontato la storia sull’ultimo “Golf Today”. Il PDF è qui, mentre qui se ne trova un racconto più esteso e dettagliato.

In questa foto c’è tutto Hogan: l’equilibrio, la forza, il lavoro, la sofferenza, la passione. Scrivere di golf è bello, divertente e utile, ma questa foto vale più di qualunque parola.

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Apr 19

hug
Uno dei motivi per cui adoro il Sudamerica (e, per ragioni familiari, il Cile in particolare, che accoglie una parte significativa delle mie radici) è che la cultura di quei paesi unisce l’efficienza e la praticità americane al calore latino.

È per questo che sono rimasto ammirato e commosso dall’abbraccio, tanto spontaneo e bellissimo quanto insolito, tra Cabrera e Scott al termine del Masters.

Qui il video completo. Un primo abbraccio si vede al minuto 13 e 04 secondi, e la faccia di Cabrera esprime ovviamente delusione (come potrebbe essere diversamente?), ma anche sollievo (e qui mi sovviene Ben Hogan al termine dello US Open del 1955 al San Francisco Olympic Club) e felicità per l’avversario (“a life changer”, come ha detto il commentatore americano appena il putt è entrato).

Al minuto 14 e 01 secondi i due si riabbracciano, all’uscita del green, e Scott parla nell’orecchio di Cabrera. Sarebbe magnifico sapere che cosa gli ha detto, ma lasciamo queste parole al privato di due grandi uomini; e sportsmanship è in ogni caso la parola per descrivere la scena.

Mi rendo conto che sconfino dal golf, ma oggi lo faccio a bella posta. Angel Cabrera è, prima che un golfista eccellente, un grande uomo.

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Apr 05

Marco Mascardi
Ammiravo da anni Marco Mascardi per i suoi luminosi articoli sul golf (o piuttosto “Golf”, come ama scrivere lui). Non sapevo chi fosse, ma ho sempre letto con piacere i suoi pezzi, testimoni di un’epoca che oggi potremmo senza tema di smentita definire mitica. In particolare mi commosse fino alle lacrime questo, uscito qualche anno fa su “Golf & turismo”.

Come non pensare a Montale?

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.

Sul numero di dicembre 2011 di “Golf Today”, rivista sulla quale entrambi scriviamo (be’, io ho una colonna soltanto, ma ubi maior minor cessat, si sa) lessi queste sue parole:

Perché, sui campi di Golf, in questo Paese, in estate hanno caldo solo i maleducati?

Quella domanda mi colpì, perché è esattamente quello che penso, io che non considero i bermuda come un abbigliamento appropriato sul campo nemmeno in agosto.

Allora chiesi alla nostra direttrice Maria Pia Gennaro di fare da “facilitatrice”. Insomma entrammo in contatto, ci siamo conosciuti quest’inverno. Sinceramente mi importava poco della differenza d’età, perché mi pareva una persona a modo, con tanta cultura e intelligenza.

Marco è un conversatore brillante, e i suoi 86 anni sono più una croce da portare al petto con orgoglio che non un peso. Tra i tanti argomenti dei nostri conversari (conversari, oddio, io preferisco ascoltarlo) ci sono stati, ovviamente, i bermuda: mi ha parlato, per esempio, dell’eleganza con cui questo indumento si può portare, in contrasto con certi pantaloncini che si vedono d’estate sui nostri campi (quelli sono i “Bermuda” però, che sono cosa diversa rispetto ai “bermuda”). (Io sono molto rigido in questo, forse troppo; però continuo a stupirmi nel vedere che si venga lasciati giocare con pantaloncini da spiaggia.)

E tanti altri argomenti: racconti di una vita, aneddoti, anche dettagli senza apparente importanza. Tout se tient.

Be’, oggi posso dire con una punta di orgoglio che Marco è mio amico. E ti vedrei bene, caro Marco, in un immaginario colloquio con Ben Hogan.

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